Ho sentito parlare del “ma” (間) durante un incontro un paio di anni fa con Otonawa, un nawashi che è anche un attore di teatro kabuki.

Quando Otonawa ha parlato del “ma” per tutti è stato chiaro che era un concetto troppo complesso da riassumere in una breve spiegazione. Alcuni mesi dopo, riguardando i miei appunti, dopo alcune letture e dopo averne parlato con un altro maestro giapponese, ho iniziato a capire meglio che cosa fosse il “ma”.

Nelle parole di Otonawa, il ma è quello che c’è “fra” un momento  e un altro: ad esempio quando leghiamo, fra ogni movimento e il successivo, anche se dall’esterno sembra che si stia immobili, non smettiamo mai di creare emozioni e comunicazione.

Potremmo dire che è la scelta del ritmo a determinare un buon ma. Nelle pause c’è sempre energia (“ki” 氣), altrimenti il ma non è buono, è solo vuoto. Un bravo attore deve avere un buon ma: ad esempio nel teatro la bravura nello scegliere e nel gestire la velocità del movimento – lento per far apprezzare i cambiamenti di espressione e di illuminazione della maschera o veloce per creare due istanti statici ugualmente significativi – determina un ma, ovvero un qualcosa che è “tra” una posa e la successiva, che è ciò che determina il giusto significato drammatico dell’azione.

Sempre secondo Otonawa il “ma” nasce nel seika tanden (臍下丹田), il punto localizzato sotto l’ombelico, sede dell’equilibrio e punto di collegamento dell’uomo con l’energia del cosmo.

Potremmo dunque dire che il ma è quel “quid ineffabilis” che differenzia un’azione priva di significato da una carica di emozione e comunicazione, “l’attimo di sospensione dell’esistenza fenomenica in cui la mente si apre alla percezione dell’inesprimibile”, per dirlo con le parole di Luciana Galliano.

Esiste un bel libro per approfondire il concetto di ma: “Ma. La sensibilità estetica giapponese”, una serie di saggi di autori giapponesi a cura di Luciana Galliano. Un libro non certo facile in cui si parla del ma in senso assoluto e nelle diverse discipline, dal teatro alla musica all’architettura, senza mai riportare questo concetto ad una spiegazione univoca e statica.

In questo libro possiamo scoprire che la parola “ma” è presente in molte espressioni giapponesi, come ad esempio “maniau” (間に合う), “adeguare il ma” ovvero “essere in orario”, o in altri termini, come “maai” (間合い), la distanza – fisica, temporale e spirituale – di due avversari in un’arte marziale. Sbagliare il ma, l’essere “manuke” (間抜け), “privi di ma” ovvero “stupidi, goffi”, è una cosa che può accadere ad esempio se si sbaglia il momento giusto per inchinarsi per presentarsi o salutare. Nelle stanze della casa – come l’ima (居間) (soggiorno) o il kyakuma (客間) (stanza in cui si riceve) – il ma non è solo lo spazio, ma anche la funzione della stanza, in cui essere a proprio agio e far stare bene un ospite.

Ma è inoltre anche “ritmo”; ad esempio avere un buon ma tra musicisti non significa semplicemente andare a tempo, ma adeguarsi e differenziarsi in maniera creativa; mentre per gli occidentali il ritmo è infatti un elemento stabile e continuo, nell’estetica giapponese il ritmo – la pausa, il ma – è fluttuante e vario, un concetto simile alla predilezione giapponese per canoni estetici come l’asimmetria, l’incompletezza e l’imperfezione, considerati più interessanti dell’espressione conclusa ed esplicita.

L’ideogramma di ma (間) rappresenta un sole all’interno di una porta (è infatti simile al noi più ben noto kanji di kannuki, 閂); esso non indica qualcosa di preciso, ma piuttosto “un’entità ‘fra’: un tempo fra due eventi, uno spazio fra cose, la relazione fra due persone o anche fra due momenti diversi di uno stesso soggetto, nella vita quotidiana, nelle arti marziali, nell’arte e nel teatro” o anche una sospensione, una pausa, un vuoto. In questo ultimo senso è un concetto un po’ lontano dal mondo occidentale, caratterizzato da un certo horror vacui; nell’estetica giapponese il vuoto, per esercitare la sua funzione, non va riempito, ma accettato come tale. Il ma nasce infatti da una rottura spazio-temporale che non è né spazio né tempo in sé, ma è semplicemente coscienza estetica, “bellezza che si materializza con lo strutturarsi di una speciale condizione di rottura” (Nishiyama Matsunosuke).

Ecco quindi che questo “fra” diventa un “varco verso l’infinito”, l’interruzione di un continuum, la fluttuazione di una costante: lo possiamo ritrovare negli spazi bianchi delle stampe, nelle composizioni floreali dell’ikebana, nell’essenzialità degli haiku, nelle pause del teatro Nō. Il ma è la pausa che mantiene alta la tensione di un attore del kabuki, l’immagine della barca che non sappiamo se resisterà all’onda in uno degli ukiyo-e di Katsushika Hokusai, l’attimo che precede lo scoccare della freccia e che condensa in sé tutta la nobiltà dell’azione e della posa, ma anche la risonanza che si percepisce quando si parla con una persona, nel sentirsi a casa anche in un’abitazione altrui, la sintonia tra musicisti, l’organizzazione dello spazio di un tokonoma, di una composizione di ikebana o degli strumenti della cerimonia del te.

Per chi volesse approfondire questi concetti o in generale l’estetica giapponese consiglio qui di seguito alcuni libri molto interessanti:

Luciana Galliano (a cura di), Ma. La sensibilità estetica giapponese, Angolo Manzoni, 2004

Aldo Tollini, La cultura del tè in Giappone e la ricerca della perfezione, Einaudi, 2014

Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, 2001

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