Io e Swirl ci siamo conosciuti durante un corso e dopo esserci scambiati qualche messaggio ci siamo trovati un giorno allo studio per fare corde insieme.

Il giorno dopo ho trovato su Facebook questo lungo post in cui Swirl fissava le sue impressioni dopo il nostro incontro.

A distanza di tanti anni ho ritrovato questo scritto ed è stato davvero toccante rileggerlo, quindi le ho chiesto il permesso di ripubblicarlo.

Spero che attraverso le sue parole possa vi possiate entusiasmare anche voi.

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Nelle parole di una bottom

di Swirl

Questo è uno di quegli articoli che faranno roteare gli occhi a mia madre, che mi busserà alla porta col broncio per dirmi che certe cose non si devono scrivere pubblicamente perché non sta bene.

Ha ragione.
Però, mamma, stamani mi sono fatta legare lo stesso, anche se non sta bene.

E tanto le persone che mi conoscono lo sanno che non ho peli sulla testa, quindi posso anche aggiungere che è stato incredibile. È stato come la sensazione frizzante di infilare la punta del piede nell’acqua bollente della vasca da bagno: sono quei pochi secondi d’incertezza prima di abbandonarsi completamente all’abbraccio del calore avvolgente, calmante, dell’acqua e sentire il tuo corpo che rallenta, rallenta i battiti, rallenta i pensieri, rallenta il respiro, fino quasi a farlo scomparire.
Chiudi gli occhi, fino a quando non hai voglia che di assopirti con la testa leggermente appoggiata sul bordo, la sua spalla, la corda, i suoi respiri nel silenzio e la musica che si allontana.

Ma cominciamo da quando il maestro mi chiede di fargli da modella ed io rispondo: “Volentieri”.
Capita a tutti, no, che il maestro di bondage di Firenze ti scriva perché ti ha vista in foto, ti ha vista a un suo corso e ha capito che hai del potenziale per fargli da cavia.
No. Cavia non è il termine corretto. Sì, lui prova su di me la sua arte, ma io partecipo, è uno scambio, è un duetto, e tutto il mio essere, la mia esistenza sono insieme a lui per accompagnarlo nella danza delle corde.

Cavia non è il termine corretto.

Aiutatemi voi, come si può definire una persona che si fa annodare ogni singolo centimetro di corpo affidando la vita senza quasi conoscersi?

Incosciente? Folle? Coraggiosa?
Forse.

Ma nella mia testa la parola giusta è “siamese”.
Come i gemelli.

Kinbaku in giapponese significa legare stretto.
Se provi a digitare su Google Search questa parola le prime immagini che appaiono sono dei bellissimi alberi ramificati, con al centro un cuore fatto di pietre ed una ragazza sospesa.

Non l’ho chiamata “arte” a caso. Il corpo è la prima rappresentazione artistica della straordinaria bellezza che esiste in natura.
Rimaniamo affascinati dal potere che il nostro corpo suscita nei nostri sguardi incantati, sospesi.

Nella stanza faceva freddo, ma era sopportabile.
Mi ha chiesto di sedermi di spalle, sulle ginocchia.
Mi ha accarezzato delicatamente le braccia nude, non con le dita, con tutta la mano, quasi come mi dovesse consolare.
I miei piedi toccavano le sue gambe, sì, così vicini.

Mi ha preso le mani e ha sovrapposto i polsi dietro la mia schiena tenendoli con una mano e con l’altra controllando che le mie spalle fossero rilassate, che non ci fossero tensioni involontarie lungo tutto l’arco delle mie braccia.
Non c’erano.

La mossa che ha seguito questo primo passo, è stata quella per la quale mi sono sentita “siamese”.
Io non avevo mai visto da sola il maestro, mai fatta legare da sola e lui, stretto dietro di me, ha semplicemente appoggiato la fronte in mezzo alle mie scapole.
Mi si è aperta una porta davanti al petto, mi è entrata della luce dentro, mi sono sentita in totale sintonia con lui, come fossimo l’uno la proiezione dell’altra, il prolungamento, il collegamento.

Ho sentito un misto di emozioni che ho dovuto snocciolare in seguito:

la prima, sicuramente, maternità. E’ stato un gesto di tenerezza che mi ha strappato un sorriso e mi ha rilassata, mi ha addolcito tutto il corpo.

la seconda, fiducia. Nel silenzio, questo gesto mi ha comunicato:
“Eccomi, sono qui, mi abbandono a te se tu ti lascerai abbandonare a me.”

la terza, umiltà.
“Sarò la forza che ti sosterrà e ti farà soffrire allo stesso tempo, ma prima devi sapere che sono qui per te”
Non è forse questo un parallelo con l’amore?

Le corde sono strette. Veramente.
Sei in balia di ogni spinta, di ogni soffio di vento.
Le corde si muovono veloci per legare, estremamente lente quando lasciano il contatto col tuo corpo, addentando la tua pelle con segni, rossori, scollature.
Le corde si aggrappano sui seni, sui fianchi, ti tagliano sui punti più erotici fino ad avvolgerti il collo come un serpente.

Ero lì, leggermente sospesa, col busto abbandonato alla gravità, i polsi indolenziti, la testa appoggiata alle corde che mi sostenevano, e con la sua mano, la sua corda, che continuava a volteggiare sul mio collo, una, due, tre, quattro volte.

I miei battiti erano lenti. La mia mente, una scatola vuota.
Poi, un solo pensiero si è piantato nella mia testa in quell’esatto momento col collo in una morsa.

“Ok, sono morta. Mi sono infilata io qui dentro e, giustamente, adesso sono morta. E’ l’evoluzione! Avevo a pensarci prima. Sono morta.”

A volte mi passava un dito sulla mano ed io l’ho stretto come i neonati quando ci giochi e ho riso.
Ci siamo stretti le dita, sì, guardati, mi ha abbracciata, accarezzata.

No, non sono morta. Respiravo benissimo, ma non ne sentivo il bisogno. Esattamente come nella vasca da bagno con l’acqua bollente che ti avvolge e tu ti lasci andare forse un po’ più fra le braccia della morte che della vita, finché non ti risvegli ed il mondo è ancora lì a guardarti.

Fa male?
Sì.
Lo rifarei?
Sempre.

Cosa ho vinto facendomi legare?

Bisogna avere un ottimo rapporto con il proprio corpo, sentirsi a proprio agio perché ti metti volontariamente in possesso di un altro essere umano.

Con la mia condizione ho sempre avuto difficoltà nell’adolescenza perché non potevo MAI lasciarmi andare. MAI.
Perdere il controllo significava espormi e lasciare che i miei punti deboli fossero visibili al 100%.
Nessuno si poteva avvicinare alla mia testa, quante volte ho fermato le mani, quante volte sono letteralmente scappata via, quante volte mi sono privata di qualcosa di meraviglioso per paura di scoprirmi.

Oggi per me non è così, i miei punti deboli sono diventati i miei punti forti.
Ma non sempre. Ancora mi fermo sul ciglio del burrone e, semplicemente, non mi butto, perché a volte non ho la forza né la voglia di usare tutto il mio coraggio per saltare giù.
A volte rimango a contemplare l’infinito ed aspetto che il tramonto si mangi il panorama e se lo porti via per sempre.

Oggi no. Oggi ho preso la rincorsa e…